Smart City si, ma dal basso ed ecosostenibili

Il 23 novembre 2013 si è tenuto a Roma un incontro promosso da “Roma Smart City” dedicato alla città partecipata e collaborativa.
Si tratta di un lodevole tentativo di definire un percorso verso la Smart City romana che sia occasione di partecipazione dei cittadini al governo della città.

Molte altre iniziative del genere si stanno organizzando in varie città.
Tuttavia a me pare che sui temi legati a Smart City, Open Data, Internet delle cose (che poi sono tre argomenti fortemente interconnessi) si stiano riponendo aspettative salvifiche esagerate. Di volta in volta uno dei tre argomenti viene descritto come la panacea per uscire fuori dalla crisi economica, o per creare posti di lavoro. Altre volte se ne parla come il mezzo principale per ridurre l’inquinamento atmosferico (grazie all’adozione di auto elettriche).

Le Smart Cities possono essere intese in due modi.

Prenderò a prestito le parole di Alberto Cottica, che di OpenData e smart city si occupa da molto tempo (e che mi è particolarmente simpatico per essere stato uno dei fondatori dei Modena City Ramblers, ai cui concerti andavo da pischello):

Uno considera che l’intelligenza delle città si concentri nelle sue università e nei laboratori di ricerca e sviluppo delle grandi imprese, e assegna ai cittadini il ruolo di consumatori dei vari gadget che queste producono. L’altro, al contrario, considera che l’intelligenza delle città sia dispersa tra tutti i cittadini, e lavora per creare spazi in cui la creatività di tutti possa esprimersi. La prima concezione di smart cities fa auto elettriche; la seconda fa ciclofficine, hackerspaces e agricoltura urbana.”

Chiaro no? Una città non è più smart e i propri cittadini non vivono meglio se le grandi imprese immettono grandi quantità di sensori collegati in rete che raccolgono dati (che finiscono in server di proprietà dell’impresa stessa e quindi vengono espropriati ai cittadini che li producono) con il fine (di facciata) di usarli per riprogettare meglio le città. Un esempio è il progetto Ofelia di Pisa, che prevede la messa in opera nelle strade della città di sensori collegati in rete per regolare i semafori in funzione del flusso del traffico (a Pisa!). La prospettiva, neanche tanto lontana, è quella di avere il frigorifero in rete che rileva la mancanza di yougurt, si collega con il supermercato e ordina la marca di yougurt preferita.

Al contrario i cittadini di una città vivono meglio, per fare un esempio, se si possono spostare più facilmente senza inquinare: illuminazione a led, piste ciclabili e microsolare. In sostanza i cittadini vivono meglio se vengono utilizzate tecnologie decentrate e controllabili dal basso.

Il rischio è invece il solito: grandissime imprese che calano dall’alto la loro tecnologia, non controllabile dai cittadini, si impossessano dei dati prodotti dai cittadini stessi (non dimentichiamo che i principali sensori che forniscono dati sono gli smartphone) per farne un uso solo in parte pubblico.

Quali sono le tecnologie controllabili?

Si fa presto a dire tecnologie decentrate e controllabili, ma quali sono nella realtà?

Per prima cosa, va da se, il software deve essere libero (free software). La caratteristica di essere libero offre la possibilità a chiunque di ispezionarne e modificarne il codice sorgente, garantendo la sicurezza (se ci fosserò backdoor qualcun* prima o poi se ne accorgerebbe) e la possibilità di cambiarne il funzionamento. Al contrario, il software proprietario e certo software open source non danno garanzie che non ci siano entrate nascoste (si veda il caso di PRISM) e non consentono di modificarne il funzionamento a meno che non lo facciano i proprietari del software stesso. Per fortuna lo sviluppo del software libero ha raggiunto e molto spesso superato l’affidabilità e la qualità del software proprietario in tutti i campi. L’unico motivo per cui ancora non viene adottato a livello di massa e nella PA (anche se sta aumentando notevolmente il numero di programmi Open Source o liberi installati), è legato a convenienze economiche delle lobby industriali internazionali.

Anche l’hardware dovrebbe essere libero, ma in realtà quasi la totalità di computer e dispositivi elettronici sono proprietari. Le difficoltà rispetto allo sviluppo del software libero sono enormemente maggiori e, tutto sommato, facili da immaginare: primo fra tutti gli alti costi di produzione. Attualmente l’esperimento più avanzato e diffuso è Arduino, con il quale si possono fare molte cose utili per una smart city: piccoli dispositivi come controllori di luci, di velocità per motori, sensori di luce, temperatura e umidità e molti altri progetti che utilizzano sensori, attuatori e possono comunicare con altri dispositivi.

Un’altra questione fondamentale a vari livelli è il controllo della connettività. Ad oggi dorsali internazionali via cavo, satelliti, ed antenne sono pressoché  tutte controllate da consorzi mondiali di società private di telecomunicazioni (AT&T, Verizon, etc.). Fossero almeno controllate da enti pubblici sarebbe, secondo me, un passo avanti, ma purtroppo non è così; tranne in pochi casi (i cavi che dalla Sardegna vanno a Civitavecchia ed a Mazzara del Vallo sono di proprietà, anche, della regione Sardegna).
Almeno nella gestione dell’ultimo miglio (la tratta di cavo che connette le centrali telefoniche agli utenti finali), però, associazioni di cittadini e fondazioni stanno facendo molto per rendere indipendenti gli utenti finali dalle grandi imprese. Un esempio importante è costituito dalla catalana GUIFI Net. Si tratta di un network aperto e basato sulla logica del peer to peer. In sostanza GUIFI aiuta le persone (ma anche imprese ed associazioni) ad ampliare la rete internet (via cavo o wifi) in maniera autonoma, portando la rete a casa propria, in modo da essere proprietari dell’ultimo miglio e quindi indipendenti dalle grandi aziende. In Italia esiste Ninux, meno estesa di GUIFI, ma presente in città importanti (Roma, Milano, Firenze, Palermo, etc). Altro esempio importante, stavolta pubblico/privato, è provinciaWiFi della provincia di Roma, che ha adottato OpenWisp, sistema OpenSource progettato e realizzato da Caspur (oggi CINECA).

Ecosostenibilità

amsmarterdam city

Il luogo comune vuole che le nuove tecnologie siano “pulite” da un punto di vista ecologico. Si sostiene che l’uso dei computer riduca l’uso della carta; che l’ottimizzazione del traffico nelle città e l’uso di auto elettriche consenta di consumare meno carburante  e quindi di emettere meno CO2; che l’uso di sensori per regolare luci, accensione di riscaldamenti, etc, consenta di risparmiare energia. Tutto vero (probabilmente)!

Ci sono, però, almeno tre aspetti che vengono spesso taciuti: la difficoltà nello smaltimento dei rifiuti elettronici, il grande consumo di energia delle nuove tecnologie, l’inquinamento elettromagnetico.

A causa della velocissima obsolescenza, indotta, dei computer, che porta gli utenti a cambiare device (computer, smartphone, tablet, etc) ogni due, e a volte ogni anno, genera una grande quantità di rifiuti elettronici. Il problema è che questo genere di rifiuti  è pericoloso e difficilmente riciclabile, a causa della presenza di sostanze considerate tossiche per l’ambiente e non biodegradabili.

Un altra questione non chiara è la quantità di energia che i grandi data center consumano. Secondo uno studio di Tony Walsh (artista canadese) e da Nicholas Carr (editor della Harvard Business Review) il consumo di energia elettrica di un singolo Avatar di Second Life (vi ricordate di Second Life?) e’ di 1,752 kWh all’anno. Leggermente meno del consumo medio annuo di un brasiliano: 1,884 kWh (a tal proposito: la (im)possibile sostenibilità della tecnologia). Non ho dati relativi alla “città server di Google“, ma non è difficile immaginare che il consumo sia anche superiore…

C’è poi un’altra questione di cui si parla molto poco: l’inquinamento elettromagnetico.
Come abbiamo visto, le smart cities prevedono la connessione continua alla rete, da parte di persone e cose, in qualsiasi punto della città. Infatti stanno spuntando come funghi grandi antenne per il segnale dei telefoni cellulari. Ma questi ripetitori sono fonte di inquinamento elettromagnetico.
La questione, pur essendo controversa, comincia ad essere pressante. Quel che appare certo, negato quasi da nessuno ormai, è che l’esposizione prolungata alle onde elettromagnetiche comporta rischi per la salute; sia per il calore che sviluppano le onde, sia per i cambiamenti che possono produrre alla struttura cellulare. E’ altrettanto certo che maggiore è la potenza delle onde elettromagnetiche, maggiore è il rischio per la salute degli essere umani. E proprio parlando di potenza, secondo PowerWatch, un ente  indipendente che si occupa di ricerca sugli effetti delle onde elettromagnetiche, 20 minuti di telefonata al cellulare corrispondono a 16 ore di esposizione in una classe di scuola con 20 computer accessi e collegati in wifi. E’ vero che PowerWatch mette in guardia anche dal picco di potenza ed è anche vero che le misurazioni che ho fatto in proprio, pur con strumenti non professionali, per il wifi hanno rilevato potenze molto più basse di quelle riportate dal sito di PowerWatch.

Comunque, a prescindere da quanto sia la differenza di potenza di onde assorbita da un essere umano, quel che appare certo è che il wifi ha una potenza molto minore di un smartphone, di un telefono cordless, di una torre per le antenne per cellulari. Volendo applicare una politica di riduzione del danno, si potrebbe dire che bisognerebbe ridurre l’uso di smartphone (e in generale di connessioni UMTS e HSPA) e utilizzare connessioni wifi  anche per le telefonate (tecnologia VOIP: telefonate via internet).

Ma c’è anche un altro ragionamento che mi fa preferire la connessione wifi alla 3g (o 4g): il wifi si può spegnere! E lo può spegnere la maestra della classe di mia figlia o il barista che aderisce a provinciaWifi. Mentre le antenne per la connessione cellulare le possono spegnere solo le compagnia di telecomunicazione che le possiedono. E torniamo al discorso di prima: una città smart usa tecnologie controllabili dal basso!

Questi secondo me sono temi ineludibili volendo ragionare di città smart per cittadini smart, altrimenti si rischia di alimentare falsi miti che non servono veramente a migliorare la vita delle persone.

LINK

Di seguito una serie di link a letture, a volte enciclopediche, a volte di parte, a volte giornalistiche, che consentono di farsi un’idea.

6 comments